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CINEMA – L’insostenibile circolarità del tempo: “Arrival” di Denis Villeneuve
a cura di Marina Amoruso
L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?
Il mito dell’eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un’ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla.”
Niente potrebbe riassumere in maniera più esaustiva di queste parole tratte dall’incipit de L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera l’essenza del messaggio veicolato dall’ultima pellicola del regista canadese Denis Villeneuve, Arrival, in questi giorni nelle sale italiane dopo aver collezionato solo applausi durante la 73ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
La trama si basa su un piatto principale costituito dall’approdo sul nostro pianeta di dodici navicelle spaziali in altrettante località disseminate per il globo e in particolare dei tentativi di una nota linguista reduce da una difficile esperienza di vita (Amy Adams), di un fisico teorico e (ovviamente) di un ufficiale dell’esercito americani di stabilire un contatto con la popolazione aliena, principalmente al fine di appurarne le intenzioni e gli scopi, con contorno, in perfetta tradizione sci-fi americana, di un governo fin troppo sensibile alla parola “arma” e di crisi internazionali risolte in extremis e per geniale intuizione della protagonista perseguita in maniera audace e controcorrente.
Se la pellicola fosse limitata all’esile corpo della trama, molto probabilmente un po’ banalizzato nella trasposizione dall’antologia di raccontiStorie della tua vita di Ted Chiang alla sceneggiatura del film, sicuramente non si tratterebbe di una storia poi così degna di nota. Per fortuna, invece, parallelamente allo scorrere della vicenda, che quasi funge da pretesto, si dipanano una serie di domande, piuttosto che di risposte, che si fanno via via più incalzanti: il modo in cui ci esprimiamo è rilevante al punto da influenzare il nostro pensiero e la percezione della realtà intesa in termini di spazio e di tempo? Lo studio di un linguaggio extraterrestre basato sulla circolarità dell’espressione grafica invece che sulla linearità connaturata ai nostri sistemi grammaticali può costituire la chiave di volta per cogliere il senso della propria esistenza? Se avessimo la certezza del fatto che il tempo e gli eventi della nostra vita non procedano in linea retta ma ruotino in cerchio daremmo alle nostre scelte un peso diverso? La consapevolezza conferirebbe più libertà e maggiore importanza alle nostre scelte? Sarebbe davvero una benedizione sapere di andare incontro ad un’esperienza dolorosa? E, essendone a conoscenza, la eviteremmo?
L’ottimo lavoro di montaggio del film, con colpo di scena finale risultante dal perfetto uso di prolessi e analessi narrative, non lascia dubbi sulla decisione della tormentata protagonista e ci lascia con la certezza di aver trascorso 116 minuti pregni e illuminanti.




