REPORT – Lo Stato Sociale a Rock in Roma: tra poesia e provocazione

a cura di Giorgia Groccia

Non si tratta certo di artisti che non conoscono il proprio mestiere. Non sono nati ieri i ragazzi de Lo Stato Sociale, band indie rock nostrana composta da Alberto Cazzola, Lodovico “Lodo” Guenzi, Alberto “Bebo” Guidetti, Enrico “Carota” Roberto e Francesco “Checco” Draicchio, bolognesi doc che sin dal 2009 smuovono la scena barcamenandosi con successo tra poesia e provocazione.

Il 13 luglio 2018, ospitati sullo scenario bucolico dell’Ippodromo delle Capannelle (Roma), fanno capolino sul palco della rassegna estiva Rock in Roma armati di musica e simpatiche t-shirt che caratterizzano da sempre l’ironia che non li ha mai abbandonati. Senza troppi giri di parole intonano “Mi sono rotto il cazzo”, uno dei successi del loro primo album ufficiale, “Turisti della Democrazia”, pubblicato nel 2012 e marchiato Garrincha Dischi, casa discografica che continua a seguire con dedizione il progetto della band. Il pubblico è un pubblico vero, palpabile ed appassionato che si dimena e che conosce tutte-ma proprio tutte-le parole a memoria: sintomo di quanto sia stato calibrato con parsimonia il lavoro dei ragazzi che, con dedizione, hanno creato una fan-base solida ma soprattutto pensante.

Si procede con “Buona sfortuna”, brano contenuto in “Amore, lavoro e altri miti da sfatare”, che simpatizza vendetta nei confronti degli ex, nulla di più semplice in cui immedesimarsi. Si prosegue con “In due è amore in tre è una festa”, “C’eravamo tanto sbagliati”, “Socialismo tropicale”, “Fare mattina” e “La musica non è una cosa seria” che sono alcuni dei pezzi più significativi, come fossero un bollino di qualità stampato che garantisce quelle tipiche sonorità che remano verso orizzonti giocosi e leggeri ma mai superficiali, celando una vera e propria denuncia camuffata da semplice ironia verso il nostro universo circostante, quello che viviamo e percorriamo giornalmente.

Difatti Lo Stato Sociale balla un valzer continuo tra i riti sociali post moderni intrisi di apericene, vegani, cucina bio-gourmet, arlecchini travestiti da politici, fashion blogger che esentano il ridicolo e treni persi, parole mancate, bicchieri rotti, occhiaie al mattino, notti passate a fissare il cielo “restare sempre la dove sta” e sogni contorti, trovando il proprio epicentro in un equilibrio che gioca sulle imperfezioni dell’essere umano e sulle ridicolezze che ne fanno da cornice, restando in ogni caso degli inguaribili e romantici poeti del quotidiano. Si prosegue con altri tormentoni non privi di senso come “Sono così indie”, critica nei riguardi di un mercato discografico che si sposta sempre di più verso l’indipendente, creando così una vera e propria perdita di senso nei confronti di quella fetta d’artisti che un tempo si erano discostati dalle major per poter cantare fuori da un coro: un coro che adesso sembra essersi ricostituito dall’altra parte della staccionata.

Poco dopo vengono selezionate quattro fan dal pubblico per partecipare attivamente sul palcoscenico durante il brano “La vita è così facile da essere impossibile”, per poi passare ad “Amarsi male”, singolo uscito nel 2016 che ha consacrato il ritorno sulla scena dei ragazzi, dopo due anni di pausa.

Oltre a far musica, Lo Stato Sociale chiacchiera con il proprio pubblico, instaura un dialogo e soprattutto espone la propria intimità senza convenevoli o perbenismo. Guenzi parla chiaro, “Questa canzone la dedico ad una persona molto molto giovane che resterà molto molto giovane per sempre” e ancora “a me questa città non ha mai fatto sentire a casa, ma a lei piaceva. Ho qualcosa di irrisolto con questa persona e con Roma. Per un secondo fatemi sentire a casa!”. Un momento così profondamente sincero viene coronato dal brano “Seggiovia sull’oceano”, romantico e straziante almeno quanto la premessa.

Si prosegue dritti con “Eri più bella come ipotesi” che vede un’ardua prova di resistenza per il pubblico che continua ad intonare per ben cinque minuti-anche quando la musica cessa di battere-la frase slogan “bruciare sempre, spegnersi mai”. Si intravede tra il pubblico qualcuno che ha segnato ad inchiostro indelebile sulle braccia questo fraseggio, c’è chi tira su gli occhi al cielo e continua a cantare senza sosta. La potenza ciclonica dei concerti si manifesta in questo frangente in cui tutti si uniscono unanime nei confronti del vicino, di chi gli sta accanto, anche se sconosciuto. A seguito giunge puntuale lo stacchetto trash che rende protagonista un medley di brani con tanto di karaoke impresso sul maxi schermo, i pupazzi dei Simpson che ballano sul palcoscenico e copricapi carnevaleschi: un attimo di puro e semplice divertimento che non lascia indifferente la folla in visibilio.

Il momento davvero toccante prende piede con il brano “Abbiamo vinto la guerra”, in memoria del giovanissimo Federico “Aldro” Aldrovani, ucciso brutalmente da alcuni agenti di polizia ancora oggi in servizio. Spunta sul palco una scritta a caratteri cubitali “ALDRO VIVE”, perché, come ribadisce Guenzi, lì al suo posto poteva esserci ognuno di noi, ed è giusto-oltre che doveroso-ricordare un giovane massacrato dalla pochezza dello Stato che avrebbe dovuto proteggerlo e tutelarlo.

Si prosegue verso il gran finale con “Io, te e Carlo Marx”, per poi cantare a gran voce uno dei brani più commoventi e sinceri mai scritti dalla band, ovvero “Niente di speciale”, interpretato da Roberto che premette: “l’anno che è passato è stato difficile”, e quel brano serve a ringraziare, e forse semplicemente è frutto di un percorso che li ha visti arrivare sin lì. In chiusura il secondo posto a Sanremo 2018, “Una vita in vacanza” e “Cromosomi”.

Tra uno sketch e l’altro, tra un carnevale in festa e una fiera delle denunce sociali ben assestate e mai banali, la band si dimostra ancora una volta all’altezza del pubblico, all’altezza delle aspettative e soprattutto di grande umanità, veridicità e bellezza totalizzante che di questi tempi è difficile da scrutare affondo a meno che dall’altra parte non si getti un ponte vero con le persone.