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CINEMA – “Revenant”: Iñárritu o l’imprevedibile virtù del blockbuster
a cura di Marina Amoruso
Ad un anno esatto dal trionfo di Birdman agli Oscar 2015 il regista messicano Alejandro González Iñárritu torna nelle sale con una mastodontica produzione da 156 minuti in perfetto stile hollywoodiano, la quale, prevedibilmente, si è già aggiudicata 3 Golden Globes ed è attualmente in lizza per gli Oscar in ben 12 categorie (tra cui Miglior film, regia, attore protagonista e attore non protagonista).
Le vicende raccontate sono ispirate all’omonimo romanzo di Michael Punke, che a sua volta attinge da una storia vera: nella prima metà dell’Ottocento il cacciatore di pelli Hugh Glass (Leonardo DiCaprio) è ridotto in fin di vita da un orso nel corso di una spedizione nel Midwest degli Stati Uniti e viene perciò abbandonato dai suoi compagni che lo credono ormai spacciato. Animato dal suo desiderio di vendetta, il protagonista si mette alla ricerca degli uomini che lo hanno tradito.
La prima ora di film è indubbiamente molto intensa grazie alla dinamicità di alcune scene chiave quali il violento attacco degli indiani ai membri della spedizione (ancora una volta un piano sequenza, come in Birdman) e la già anticipata e chiacchierata lotta tra un orso grizzly e il protagonista. Escludendo questi momenti, tuttavia, i ritmi della pellicola sono nel complesso molto dilatati e, tenendo anche in considerazione la lunghezza totale del lungometraggio, ne deriva che la trama risulti piuttosto esile e dagli sviluppi prevedibili.
Quasi del tutto assente anche la caratterizzazione dei personaggi, stereotipicamente manichei: Glass è il buono che cerca giustizia a tutti i costi per sé e per il figlio, e che, in quanto buono, è sempre assistito dalla fortuna nelle avversità, mentre Fitzgerald (un impeccabilmente odioso e sempre ottimo Tom Hardy) è il cattivo avido e senza scrupoli, perfetta incarnazione del “mors tua vita mea”; tutt’attorno un manipolo di personaggi di contorno che si limitano a interagire con queste antropomorfizzazioni dei due poli morali estremi. Un peccato, considerato l’elevato potenziale degli attori a disposizione, sicuramente in grado di dare vita a personaggi molto più sfaccettati.
A tal proposito lo “spreco” maggiore è costituito dalla performance di Leonardo DiCaprio, che si è dedicato ad un lavoro impressionante per girare scene estreme senza controfigure, rischiando, ad esempio, anche l’ipotermia, ma che non si avvicina minimamente (per la quasi totale assenza di dialoghi) alla complessità delle interpretazioni a cui ci ha abituato, come quelle memorabili, per citarne solo alcune, di The Aviator, The Wolf of Wall Street, Revolutionary Road, The Departed e Buon compleanno Mr. Grape.
La “natura matrigna”, crudele e inospitale, può essere annoverata tra i protagonisti del film per le continue prove a cui sottopone i personaggi, non limitandosi, quindi, a costituire un mero sfondo sul quale si sviluppa la narrazione. Ancora una volta, però, la durata eccessiva della pellicola fa pesare la presenza delle numerose scene con scorci e paesaggi, nonostante la maestosità e la bellezza dell’ambientazione scelta, rese soprattutto dalla fotografia di Emmanuel Lubezki (lo stesso di The Tree of Life e Gravity, per citarne solo alcuni).
Nel complesso non è possibile mettere in dubbio né il talento del pluripremiato e acclamato regista messicano né quello dell’altrettanto valido cast, ma siamo sicuramente molto lontani dai fasti della cosiddetta Trilogia sulla morte. Nonostante ciò è comunque molto probabile che il lungometraggio si aggiudichi ugualmente molti premi per via della produzione da blockbuster che tanto piace ai membri dell’Academy e che si è già dimostrata vincente in più di un’occasione.